Piero Bianucci

Esempio di “scrivere per il web”

 

Le rondini di Pascoli mangiavano i vermi di Vassalli?
(lastampa.it, 14 aprile 2012)

 

Antefatto. Capita che a tarda sera ti chiedano un pezzo sulle rondini, “sai, uno di quelli che partono in prima pagina e girano dentro, un po’ divertente... c’è un’agenzia, dice che le rondini sono sempre di meno...”.

Allora ti metti lì, in mezz’ora lo fai, e viene comodo, per chiudere, scherzare un po’ sul buon Pascoli di scolastica memoria. Sì, scherzare, considerando che in questi giorni tutti lo celebrano compunti a cento anni dalla morte (6 aprile 1912). Perché nel Pascoli c’è un grande svolare di passeri e rondini, e in “X agosto” il poeta ci parla di una rondine che, colpita da un cacciatore, “cadde tra spini: / ella aveva nel becco un insetto: / la cena dei suoi rondinini”. Però l’insetto due versi dopo subisce una repentina trasfigurazione: la povera rondine “ora è là, come in croce, che tende / quel verme a quel cielo lontano”.

Dunque: verme o insetto? Semplice distrazione, esigenze metriche o ragioni della poesia che Linneo non conosce?

Fine dell’antefatto. Passa qualche giorno e Sebastiano Vassalli, scrittore che tutti apprezziamo, in un suo “Improvviso” sul “Corriere della Sera”, prende le parti del poeta, e lo fa citando i “vermi nati a formar l’angelica farfalla” di Dante Alighieri. Farfalla che è un insetto, osserva Vassalli. Di qui la conclusione: “Vorrei dire a Bianucci che insetti e vermi non sono incompatibili, almeno nell’uso della lingua. E che nella poesia di Pascoli l’immagine di quel nido nell’ombra, che pigola sempre più piano è così bella da far perdonare un errore (nel caso ci fosse, ma non c’è).”

Sono d’accordo su tutto, tranne che sulla parentesi. Perché quella dell’insetto è una larva, non un verme. La larva in uno stadio avanzato può farsi bruco, e somigliare a un verme. Ma tra insetti e vermi rimane un abisso genetico, un salto evolutivo, una inconciliabilità sistematica, e anche dal punto di vista strettamente linguistico altrettanto profonda è la distinzione di significato tra larva, bruco e verme.

Scusate, sono piccolezze. Non prendiamoci troppo sul serio. Piuttosto l’occasione del centenario è buona per ricordare il Pascoli cosmico, quello migliore, che si smarriva nel cielo stellato.

Lirico confidenziale, simbolista, ingenuamente onomatopeico, a dispetto della poetica del “nido” (così ben analizzata da Bàrberi Squarotti) e del “fanciullino”, Pascoli, forse a sua insaputa, come direbbe Scagliola, aveva assorbito la cultura positivista e per l’astronomia si abbeverava al più popolare dei divulgatori: nella poesia “La vertigine”, inghiottito nell’”immenso baratro di stelle”, scrive di un “precipitare languido”, aggettivo a prima vista incongruo se non si ricorda che nei suoi libri Flammarion lo associa al moto degli astri.

Quanto alla Luna, da filosofica qual era nelle domande leopardiane del pastore errante, diventa geologica e toponomastica, una Luna che Pascoli aveva studiato su precise mappe selenografiche e forse anche scrutata al telescopio: “C’è il Mare della Serenità. C’è il Mare / di Nubi. Anche, di Pioggie e Tempeste. / Un altro Mare senza l’acque amare. / C’è la Palude delle Nebbie meste. / C’è anche un Seno, a goccia a goccia pieno / di guazza dalla grande alba celeste. / E c’è il Lago dei Sogni. Anche c’è il Seno / delle Iridi: tanti archi di porte / nel cielo: un infinito arcobaleno.” Astronomico si rivela “Il ciocco” dopo un avvio che sembra anticipare la poesia-racconto teorizzata da Pavese: “Il babbo mise un gran ciocco di quercia su la brace; i bicchieri avvinò; sparse il goccino avanzato; e mescé piano piano, perché non croccolasse, il vino. (...) E le donne ripresero a filare, con la rocca infilata nel pensiere (...)”, mentre fuori “non c’era nella notte altro splendore che di lontane costellazioni” (...). Uno spazio silenzioso ma violento, come ci insegna la più recente astrofisica delle supernove e dei buchi neri: “Là, dove i mondi sembrano con lenti passi, come concorde immensa mandra, pascere il fior dell’etere pian piano, beati della eternità serena; pieno è di crolli, e per le vie, battute da stelle in fuga, come rossa nube fuma la densa polvere del cielo”. Dopo tutto, così come amava l’astronomia, Pascoli non disdegnava i piccoli progressi tecnologici figli della scienza positiva. Acquistata una penna stilografica, annotò con soddisfazione che grazie ad essa non doveva più essere schiavo del calamaio. Un “piano melodico” a schede perforate donatogli dalla Editrice Bemporad, antenato del grammofono, lo deliziava con la sua musica meccanica: piacere che gli guastò l’azienda produttrice del marchingegno chiedendogli due righe pubblicitarie da inserire nei giornali. Traggo questo aneddoto da “Candida Soror”, biografia della adorata e gelosissima Mariù, sorella del poeta, scritta da Maria Santini, e ve la consiglio, insieme con la vita di Pascoli narrata da Gian Luigi Ruggio (Simonelli Editore). Due letture che favoriranno un centenario pascoliano meno retorico e più consapevole.